Sali e tabacchi

Racconto breve di Sveva Borghini

“Sarai sempre la nostra bambina” era questo il loop verbale che continuava, con indefessa costanza, a pulsare tra le meningi di Ada.

Dagli occhi le scendevano piccole lacrime silenziose, leggere.

Ada stava pensando ai suoi genitori; non c’erano più, volati su una nuvola come amava credere lei.

In fondo, Ada era ancora una bambina: innocente e mai cresciuta.

Seconda di tre fratelli, aveva imparato dalla mamma ad apparecchiare, a svolgere tutte le faccende di casa e, per ultimo, anche a mettere una pezza alle voragini economiche scavate da sua sorella e da suo fratello.

Era come una piccola formica che, briciola dopo briciola, aveva dato vita a una montagna di fortuna!

Ma poi, che farsene? Anche la sua vita, come quella di un formicaio, aveva pareti strette: il modesto tabacchino situato sulla strada di campagna, i suoi cani e il nulla. Del resto, i suoi genitori erano andati altrove, si erano stabiliti su di una nuvola.

Per un po’ di tempo si diede allo yoga, lezioni serali nel vicino paese e poi, su consiglio di alcune pungenti cugine, aveva iniziato ad andare dal parrucchiere una tantum, ogni sei mesi circa, per farsi sistemare quei capelli crespi e aridi come il suo essere!

Ormai sulla cinquantina, Ada aveva imparato a trattare con i clienti del suo tabacchino; sempre educata, anche se un po’ le costava, ma gliel’aveva insegnato la mamma che…gli altri hanno sempre ragione!

Ma se la si osservava per qualche secondo in più, era possibile scorgerle nei suoi occhi, rimpiccioliti dall’uso prolungato delle lenti, una velata vena di tensione quasi fosse una sfida proposta all’interlocutore del momento, attraverso lo sguardo.

Sapeva spaventare Ada e, soprattutto, farlo in modo sottilissimo.

Era una donna con un grande potere che non spartì mai con nessuno. Neanche con il giovane postino che dal 1990 al ’93 lavorava nel vecchio ufficio postale di fianco al suo tabacchino.

Ettore, il porta lettere, la voleva ma Ada finse sempre di non capire e di non vedere perché sapeva bene che l’altra faccia del suo grande potere aveva i connotati di un’enorme, spaventevole paura. Paura di vivere, paura di essere chi? Se non se stessa.

I suoi compaesani la chiamavano la tabaccaia di Vanecalla, dal nome del luogo in cui sorgeva il suo negozio. Ignari, ogni volta che pronunciavano questo epiteto, la incastonavano per sempre lì.

Ad Ada ben riusciva la pura azione dell’evitare: eludere uno sguardo, schivare un apprezzamento oppure la punta di un dolore e, quale quotidiana abitudine, rinunciare totalmente a Sé.

In ogni caso, si dimostrò una bambina forte, sempre. Gestì con dignità e compostezza la malattia e la morte dei suoi anziani genitori, riorganizzò gli spazi di casa buttando via ciò che non le era più necessario e sezionò in tre esatte porzioni l’eredità da spartire tra lei e i suoi fratelli. Non scoppiò screzio alcuno.

Sull’onda di tali cambiamenti, la tabaccaia di Vanecalla decise di spostare anche il suo negozio, di soli pochi metri, s’intende, ma le parve comunque di respirare una ventata di novità.

“In questo nuovo fondo, voglio il bancone in verticale, rivolto verso la finestra!” esordì rivolgendosi a Mario, suo fratello, pur senza degnarlo di uno sguardo. Teneva le spalle basse e leggermente ricurve in avanti e si teneva stretta nei suoi abiti anonimi e scoloriti: un jeans e una maglietta a maniche lunghe.

Ada stava fissando il vuoto.

Dalla sua, Mario sospirò poi disse: “ma non capisci che così non è funzionale? Non vedi chi entra e possono pure rubarti la merce!”.

Ma Ada era decisa; a lei non interessava vedere in faccia i soliti tabagisti e ludopatici che frequentavano il negozio.

Per prima cosa voleva vedere il sole, il sole del mattino e scaldarsi con i suoi raggi e diventare per poco, fosse anche solo per qualche minuto, dorata.

Ada aveva la tremenda voglia di sentirsi abbracciata da qualcuno e aveva deciso che, tanto per iniziare, il sole le poteva andare bene.

In fondo, lui non le avrebbe chiesto nulla in cambio, non avrebbe preteso che fosse ancora la buona e eterna bambina che, sotto sotto, con peccato, non era più.

Ada voleva riprendersi la sua vita, proprio allora che ne aveva trascorsa più di metà a farsi contaminare dalle idee altrui; quelle esplicite e quelle solo sussurrate dentro desideri muti.

La tabaccaia di Vanecalla aveva proprio voglia di farsi baciare dal sole, ogni mattino e di mostrare a quella palla di fuoco, come un albero spoglio, le sottili rughe che segnavano il suo viso quali nervature naturali di foglia.

Ada notava tutto, pure il suo invecchiare: il crespo dei suoi capelli si era fatto argentato, la pelle più ingrigita e molle, le ossa dello sterno più evidenti. Era una bambina vecchia adesso!

Ma voleva smetterla di sentirsi piccola, magari solo vecchia si, quello poteva andarle bene.

E poi voleva che il sole le parlasse parole come gocce di calda luce, confortante, come un liquido amniotico etereo, un liquido amniotico per bambini invecchiati e stanchi, che vogliono smettere di sentirsi tali.

Nulla di tutto ciò trasudò dalla voce di Ada, non si confessò al fratello. Con semplicità la donna ripeté: “Voglio il bancone in verticale, in faccia al sole!”.

Mario, sopracciglio alzato, l’adolescenza diluita in quasi sessant’anni di vita: scarpe slacciate, jeans strappati e polo con colletto tirato su, guardando l’orologio disse frettoloso: “Va bene, ciao!” e si polverizzò oltre la porta.

Passarono i giorni, ormai i piccoli lavori e il trasloco della merce erano ultimati.

Ada si era data, come sempre, da fare ma questa volta non aveva potuto contare solo sulle sue forze. Aveva dovuto chiedere aiuto. Così, il fratello si era occupato delle faccende più faticose.

“Dai, chiudi gli occhi!” la esortò canzonatorio Mario, “Vedrai! Se non ti piace mi offendo!” proseguì sullo stesso tono.

Ada, a occhi chiusi, presa per un braccio senza troppa delicatezza, venne sistemata di fronte alla saracinesca del suo nuovo tabacchino.

In quel momento di non vedere sognava già lo speciale tepore del sole velato, silenzioso e inodore del primo mattino.

“Entra!” squillò Mario spingendola all’interno.

La tabaccaia di Vanecalla fece solo un passo.

Senza respirare osservò per qualche secondo l’ambiente intorno constatando che fosse perfettamente identico al precedente. Il bancone era disposto in orizzontale.

Il sole entrava comunque ma illuminando l’espositore di patatine piantato nell’angolo in fondo.

“Be, be, bello” disse Ada, balbettando un poco, “Grazie” aggiunse con tono monocorde.

“Ehhhh, lo so, lo so! Sono stato bravo, buon lavoro sorella!” la salutò frettoloso Mario, con un piede già fuori dalla porta.

Ada aveva un desiderio. Un desiderio rimasto inosservato, non visto, non accolto.

Dentro di lei era caduto un profondo silenzio, sembrava neve; un’intera coltre distesa e candida ma, pur sempre pesante.

Dagli occhi le scesero piccole lacrime silenziose e leggere.

Prese uno sgabello, posizionandolo con estrema attenzione nel centro perfetto del raggio di luce solare che inondava la colonna di sacchetti di patatine.

Con la mano sinistra, senza neanche guardare, perché gli occhi di Ada puntavano il sole, pizzicò un pacchetto di polentine, le sue preferite.

Dopo di che, si sedette sullo sgabello offrendo all’astro diurno le sue minute lacrime senza suono.

Sgranocchiando lentamente, pregò il sole di asciugargliele, ancora una volta.



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