L’atto notarile – un racconto

Sandra era una signorina di 63 anni.

Quella sera, seduta sull’elegante poltrona dello studio notarile del centro, guardava con un sottile velo di malizia tutti gli astanti.

Portava un leggero strato di rossetto che le colorava le labbra. Con i suoi occhi vispi, da quindicenne, parlava sottecchi con sua madre, di più di novant’anni, che sedeva dietro di lei.

L’anziana donna somigliava a una tartaruga, lenta e mesta, a tratti quasi immobile. I suoi respiri erano profondi, ogni sbattere di palpebre era simile a un fenomeno raro, di quelli che si verificano a cadenza decennale. Infine, nella zona della bocca aveva abbozzato un impalpabile sorriso. Quella sottile smorfia all’insù posta sul viso dell’anziana conferiva, a tutta la figura, avvolta in abiti scuri, vetusti e troppo ampi, un’aura di serenità, di pace ultraterrena.

Il sorriso della madre di Sandra era veramente piccola cosa ma faceva sentire bene, come se fosse tutto a posto, tutto nelle perfette condizioni secondo un ordine cosmico imperscrutabile.

Probabilmente, l’espressione di quel volto era data da tutti quegli anni trascorsi con i piedi ben poggiati a terra, da una primitiva vita in campagna, quel tipo di esistenza che ancora si poteva considerare vera.

Poi la donna si sposò, rimase incinta e poi vedova. Da quel suo unico matrimonio, un amore combinato, nacque Sandra, la sua estensione, la sua unica figlia che tenne a sé per tutta la vita, come un gioiello di famiglia, un cameo prezioso riposto nello stesso portagioie a dispetto degli anni che passavano.

Sandra era lì, con la sua borsa che conteneva tutte le sue cosine; lei non si era accorta di avere 63 anni. Era rimasta adolescente, per sempre chiusa in un segmento di tempo che le aveva giusto consentito di diventare signorina, un semplice fiore di campo, fragile, che si mostrava alla vita secondo l’idea romantica e un po’ naïf degli anni ’60 del secolo scorso.

Anch’io mi trovavo nello studio notarile, proprio in mezzo a Sandra e a sua madre. Ero seduta, tentando di tenere la mia schiena il più retta possibile. Tra le mani stringevo la Mont Blanc Boheme, la mia penna, una delle preferite. Con il dito indice della mano destra scorrevo la superficie liscia e nera dell’oggetto incontrando, ogni volta, i tratti regolari della sottile incisione delle mie iniziali, utili a ricordarmi chi fossi.

Mi vidi così diversa da Sandra: io mi mostravo corrispondente alla mia età, nulla di più e nulla di meno, curata, vincente, resistente, sicura di me e sbrigativa.

In effetti, avevo fretta di concludere quell’affare.
Volevo vendere e scappare.
Volevo chiudere quel tratto della mia vita, non appartenervi più, pensandomi già un’altra, altrove, nuova.
Nella mia mente, tutto ciò era già stato costruito; l’avevo delineato da giorni, racchiuso in una metaforica scatola sigillata con un enorme vaffanculo posto sul davanti.

Per questo, avendo cose già pensate in testa, potevo dedicarmi ad osservare la scena e i personaggi che, con le loro peculiarità, la coloravano.

Scoprii quindi che Sandra era nata in campagna, in un paesone dell’entroterra ligure. Era evidente che all’epoca fosse più attraente trasferirsi a vivere in città, mentre io, in quel momento, ascoltando le origini della donna, avrei voluto con tutto il cuore fare a cambio con lei. Avrei gettato la mia Mont Blanc Boheme dalla pietra nera incastonata, nel primo tombino assieme alle chiavi della mia macchina di grossa cilindrata, tagliato a metà le mie carte di credito e, infine, mi sarei spogliata dei miei abiti alla moda per indossare tuta e scarponi ed immergermi in sconfinati prati verdi.

“Ma questo non era ancora possibile” – sospirai, tra me.

Sandra si era mantenuta vergine per tutta la vita, una signorina appunto, di nome e di fatto. Lo capivo dai suoi occhi, da come si atteggiava verso le presenze maschili che condividevano con noi la stanza quel pomeriggio. La donna riteneva che il corteggiamento fosse ancora importante, insomma, un modo di fare apprezzabile e galante, da lei sicuramente gradito.

Per questo sibilava alla madre come un’adolescente che, mentre era in giro con le amiche, incontrava per caso un genitore. Forse, nello studio del notaio, Sandra avrebbe voluto vicina la mamma, ma in modalità trasparente!

Povera donna, incrociai i suoi occhi vecchi e stanchi, dallo sguardo basso. Quella figlia, l’unica “cosa” che le era rimasta, era la sua sola pena, che la teneva in vita. Quante preoccupazioni era Sandra per sua madre: completamente sola e con quella menomazione al piede per la quale era rimasta piccola per tutta la vita, un’esistenza bambina appunto.

Le due donne erano in simbiosi: vivevano insieme, dormivano insieme e, insieme, condividevano la visione del mondo, la loro. Erano… quasi selvagge, il mondo, così moderno, le spaventava. Si facevano aiutare dagli altri per sopportare tutto questo in quanto loro non sapevano proprio come fare!

Nel piccolo appartamento che condividevano, in affitto, parlavano solo con il vicino, il dirimpettaio. Per il resto, il nulla.

Sandra, in una piccola confidenza che si era lasciata sfuggire, a seguito della mia dialettica volta a decantare i pregi dell’immobile, della mia casa avuta in eredità e che avevo fretta di vendere, raccontò che quel vicino era buono e caro ma, alle volte, troppo pedante, mostrando molta voglia di condividere, di chiacchierare. Così, quando per lei e per sua madre era troppo, facevano finta di non esistere, di non essere al mondo. Del resto, a loro riusciva proprio bene recitare quella parte. Anzi, ad essere sinceri, certe volte avrebbero proprio voluto che fosse così!

Il notaio, un tipo aitante, di bassa statura e dall’origine partenopea, fu rapido nell’espletare il suo compito, ghiotto al pensiero di accaparrarsi il lauto compenso. In testa, il professionista aveva tutt’altro: pensava al suo primo genito che sarebbe nato di li a pochi giorni, proprio durante le feste di Natale. L’uomo ostentava orgoglio e fierezza per il lieto evento che presto sarebbe capitato nella sua vita, si trattava di un maschio! Dunque, un perfetto proseguo della sua stirpe e già pensava a cosa sarebbe diventato da grande suo figlio, oppure no…

Mentre ascoltavo la cantilena fatta di date, numeri, nomi e indirizzi, un groppo alla gola mi assalì.
Era la mia sensibilità che gonfiava le pupille, facendo capolino sulla scena. Qualcuno, un estraneo mi stava ricordando da chi ero nata, dove venivo, le opportunità che avevo avuto e le possibilità di cui avrei usufruito una volta ottenuto l’assegno di vendita.
In quel momento, pensai con nostalgia a mia madre. In fondo, mi stava dimostrando che a me, sua unica figlia, ci aveva pensato, poco importava se, nel concreto ciò era accaduto dopo la sua morte.

La mia Mont Blanc Boheme, mi accordò la consueta fedeltà garantendomi un tratto perfetto nel redigere la firma.

Sandra, invece, la penna se l’era dimenticata. Si accontentò di una bic dall’inchiostro nero, senza neanche farci caso.

Indugiai ancora qualche minuto nella vita altrui, di quelle donne che non avevano mai alzato troppo gli occhi al fine di mirare un po’ più in su, oltre l’umiltà.

Pensai, al posto loro, il finale, la loro chiusura di sipario.

Mi augurai che la vecchia madre campasse ancora un po’, in fondo dimostrava meno dei suoi 92 anni e aveva una fibra forte nonostante la tenesse ben celata dietro a quelle fragilissime sembianze di misera figura.

Per Sandra, non riuscii a augurarmi nulla. In fondo, un po’ mi irritava la sua persona; quell’indolenza a non voler crescere, quella sua resistenza ostentata a non farsi carico delle responsabilità adulte, faticose.

Credo, però, che la invidiai per questo.

Quel pomeriggio pioveva, era dicembre.

Pochi minuti dopo, ci ritrovammo fuori dal portone dello studio notarile.

Io ero avvolta nel mio cappotto costoso. Ai piedi portavo calzature giuste, che aumentavano di qualche cm la mia reale altezza.

Le donne stavano, quasi accartocciate, in silenzio, gli occhi persi in un nebuloso nulla. Non esprimevano nessuna emozione ne la voglia di festeggiare il loro nuovo acquisto, in prossimità del Natale, per giunta!

Ne presi atto.

Poi, mi ricordai della mia fretta, di aver realizzato il mio intento e che, invece, per come ero fatta io, avrei dovuto continuare la mia corsa di vita fatta di una tappa dopo l’altra, di un ottenimento dopo l’altro, di cui non ero capace di gustarne il sapore.

Così, sfoggiai un tenero sorriso, tesi la mano prima verso Sandra e poi a sua madre, augurando loro un buon proseguimento.

Mi girai di 180 gradi e presi le scale a passo svelto.

Erano gradini di marmo bianco, umidi per la pioggia e appartenenti a quell’elegante palazzo del centro città.

Sospirai e, infine, uscii facendo scattare il pulsante del mio ombrello grigio.

Sveva

Una risposta a “L’atto notarile – un racconto”

  1. Bravissimaaaaaaaaaaaaaaa ti assicuro che ho participato a tanti rogiti ma nessuno mi ha preso come questo tuo racconto…grazie

I commenti sono chiusi.



scrivimi
Copyright © All rights reserved. Stefano Borghini Design