La maschera – un racconto breve

La maschera, la maschera, la maschera”.

Un ammonimento ritmato echeggiava dentro l’androne del vecchio palazzo. Era pronunciato da un timbro maschile, con intonazioni tra il gioviale e il perentorio.

L’ombroso antro dello storico palazzo in stile liberty, sanciva l’entrata in un mondo diverso da quello lasciato all’esterno, riempito dalla luce del sole.

I suoi spazi, così ampi, sembravano costituire un’enorme cassa armonica, pronta a realizzare un’eco per ogni rumore che scoppiava al suo interno.

Alle volte, piccoli gruppi di ragazzini, si nascondevano nei suoi angoli, divertendosi ad emettere grida più o meno acute, seguite da risa spiritate. Quel gioco era qualcosa di sciocco e di sinistro allo stesso tempo. Un richiamo per fantasmi annoiati.

Ogni volta che accedevo nel palazzo, salutavo con gli occhi, come prima cosa, il mosaico che si estendeva all’entrata. Il bianco, il verde e l’amaranto andavano a costituire una trama a triangoli sull’antico pavimento.

Immediatamente dopo, incontravo i due lunghi gradini di marmo che fungevano da preludio alla tromba delle scale e all’ingresso dell’ascensore. Quest’ultimo diveniva strumento di un’arcana selezione naturale in quanto, forse ormai unico esemplare nel suo genere, per accedervi bisognava possedere – ogni singola volta – uno spicciolo da 2 o da 5 centesimi da inserire nell’apposito mangiamonete. Solo così il montacarichi, dall’aria agé, si riteneva pronto a partire.

Comunque quei primi due gradini marmorei presentavano delle estremità tondeggianti: oramai gli spigoli erano smussati, logori dal tempo e dalla sopportazione di innumerevoli passaggi.

Ogni volta, la suola delle scarpe incarnava un inconsapevole pezzo di cartavetra: perfettamente aderente alla superficie fredda e venata del marmo, ne soffiava via una parte millesimale, ogni giorno moltiplicato per mille e più scarpe indossate da altrettanti uomini.

Al fine di evitare il dazio inesorabile dell’ascensore, il mio obbiettivo, da sempre, era inforcare le prime 3 rampe di scale che, strette, buie e sinuose lo corteggiavano dall’esterno.

Inoltre, per un patto inconscio con me stessa, decidevo, con costanza, di non accendere mai la luce. Probabilmente, non gradivo avere una chiara visione delle singole rampe, piuttosto sentirle, creando un ritmo complice la para delle mie calzature, che ben si miscelava con l’affannoso respiro dei polmoni e la pompa del cuore.

Quel pomeriggio, lasciato di fuori il mondo del sole e appena dopo la modesta entrata della portineria, posta al piano ammezzato, una voce che ripeteva “la maschera, la maschera, la maschera …” si fece corpo, all’interno dello storico palazzo.

Il viso era praticamente inesistente: gli occhi erano protetti da occhiali scuri, mentre la parte inferiore del volto da una sorta di becco di papera posticcio, bianco e posto in verticale. Ma alla mia fantasia piace ricordare soprattutto il colore verde bosco della coppola e il cappotto doppio petto a piccoli scacchi bianchi e neri che ricoprivano quello strano essere. Nel mezzo di questi due elementi si attivava solo un megafono dal messaggio ripetitivo.

Li per li, esitai nel comprendere veramente il suo invito: quell’entità mi stava spingendo a calarmela la maschera oppure a indossarla?

E ancora, a quale travestimento si stava riferendo? A quello reale, fisico, tipico di uno stravagante Carnevale senza fine, oppure a quello relativo al guardaroba della mia Personalità?

Ammetto che rimasi interdetta, o ancor peggio raggelata!

In quel momento mi feci vuoto. A perdere, a disperdere quel monito che si ingigantiva sempre di più nell’androne del palazzo.

Il tono maschile accattivante e ammiccante non bastava quale valida garanzia per seguirlo, per agirlo tout-court.

Quell’imposizione bonaria mi fece stringere la gola, iniziai a sentire il sudore imperlarmi la fronte. Nel giro di una manciata di secondi, mi ritrovai protagonista di un insolito defilè: indossai una sequela di maschere, tutte in fila. Prima quella del diavolo, seguita da quella della pazza furiosa, poi la ribelle, la complottista, l’adolescente con lo scazzo, l’analfabeta, l’ignorante, la straniera, l’eretica, la sbruffona, la maleducata.

Infine, arrivò il turno dell’unica, sola maschera possibile. Si trattava per me, di un travestimento nuovo, misurato solo in alcune occasioni sporadiche ed estremamente rare. Tant’è che tò, aveva ancora attaccato il cartellino e dondolava, frusciante, nella parte più lontana dell’armadio della mia Personalità. Quella volta decisi di indossare la maschera della più totale indifferenza: schietta, tetragona, sfacciata!

Superai il doppiopetto a quadri, sembrava un fumo grigio denso che saliva verso l’alto, intento a spegnersi.

Poi, pronunciando a me stessa un “si” solo a fior di labbra, iniziai la solita salita di 3 piani.

Alle mie spalle, ancora una lancia infuocata di attrattività mi sfiorò, non colpendomi, per fortuna! “Buongiorno!”, recitava la punta acuminata. Si trattò di un saluto nitido, ben scandito, dalla sonorità chiara.

La mia indifferenza non rispose, non c’era proprio nessuno che poteva contraccambiare quel saluto dentro di me allora!

Quell’ultimo affronto aveva avuto però il potere di trasformare l’elegante palazzo in una fetida fogna; immediatamente la luce calò repentina, il luogo divenne più tetro e maleodorante mentre pozze di acqua stagnante si palesarono tutt’intorno.

Quel dialogo monco era stato capace di generare un incubo così potente da lordare quel posto!

In quel momento, la mia rabbia fragile era in bella vista. Scoprii, proprio lì, che era muta.

Mi calai la maschera, rimanendo ancora attrice su quel palcoscenico 1 x 1.

Iniziai a salire con una certa foga i primi gradini, in modo da allontanarmi il più in fretta possibile da quell’angolo risucchiante. Era come se le scale si materializzassero, di secondo in secondo, quasi avessero la volontà di assecondare il mio incedere.

Ansimante, giunsi finalmente di fronte al portone del terzo piano.

Il mio indice destro azionò il campanello – dlin dlon –

Friggendo, la chiusura automatica, in un attimo, scattò. Io inspirai una profonda boccata d’aria, buttai fuori e indossai, ancora una volta, la maschera.

L’ennesimo travestimento.

Era tempo di gettare la spugna, madida di sudore e di pensieri impropri, e di entrare – un’altra volta – in scena.

Sveva Borghini



scrivimi
Copyright © All rights reserved. Stefano Borghini Design